Nello scenario della devastante crisi capitalistica i governi occidentali, hanno rilanciato un ciclo di guerre in Africa. La popolazione Maliana è solo l’ultima il cui sangue è stato nuovamente sacrificato sull’altare del profitto. Ma, prima dell’attuale intervento in Mali, un’ altra guerra ha costruito corpi e menti sofferenti tra coloro che sono nati in Mali e in molti altri paesi africani: stiamo parlando dell’ingresso a gamba tesa degli interessi occidentali nel mezzo delle rivolte del nord-Africa e del vicino Oriente, ovverosia la guerra in Libia. La guerra “umanitaria” iniziata nella primavera del 2011, ha costretto migliaia e migliaia di lavoratori, originari di ogni parte d’Africa ed immigrati in Libia (dove riuscivano a portare a casa salari di più di 1000 dinari libici -circa 600€- con alloggio e utenze pagate e un costo della vita decisamente inferiore all’ Italia), a fuggire, quando non obbligati con la forza, attraverso il mediterraneo nuovamente fossa comune per i dannati della terra.
Nel 2011 sono arrivati in Italia circa diciottomila uomini e donne; le stesse istituzioni che li hanno costretti a giungere fin qui hanno deciso che sarebbero dovuti diventare carne fresca per i più svariati usi, dalle speculazioni politiche razziste al rinverdimento delle casse di “umanitarie” cooperative e di normali albergatori. Un flusso di denaro gigantesco (1mld e 300mln) ha visto come pretesto passivo la permanenza di migliaia di persone all’interno di un circuito di centri di accoglienza, strutture pubbliche e private, capannoni allestiti in condizioni pessime, il tutto in quadro normativo e operativo di emergenza. Ora il Governo dichiara chiusa l’emergenza: il 28 febbraio, quanti sono ancora all’interno dei campi (come li chiamano loro), dovranno ufficialmente abbandonare le strutture. In questi mesi di evidente inadeguatezza, malagestione, clientelarismo, untuosa carità e razzismo, le istituzioni (governo,comuni e prefetture) hanno provato a liquidare il problema cercando di dividere i rifugiati e richiedenti asilo, con processi di etnicizzazione (dalla separazione su base nazionale e etnica nelle strutture alle trattative separate) e cercando di proporre illusorie soluzioni individuali. Le organizzazioni, che hanno intascato 46€ al giorno per ogni richiedente asilo per quasi due anni e che avrebbero dovuto garantire corsi di lingua, inserimento abitativo e lavorativo, hanno invece solo rinvigorito i loro portafogli ed, al massimo, trasformato in problema di ordine pubblico le proteste e le rivendicazioni degli “ospiti”. Così è successo in occasione della sollevazione alla “Casa a Colori” di Padova per la quale cinque rifugiati, dopo essere stati in carcere, sono ora agli arresti domiciliari. Promettendo “buonuscite” di 500€, che suonano ridicole rispetto ai soldi già spesi in questi anni, e raccontando storie alquanto fantasiose sulle possibilità di movimento e le opportunità di lavoro nel resto d’Europa, prefetti e uffici comunali hanno spinto molti a uscire dalle strutture e spesso a partire per altri paesi. Molti di coloro che sono partiti hanno anche già fatto ritorno, rispediti, secondo le regole dell’accordo DublinoII, nel primo paese europeo su cui sono approdati; altri hanno iniziato un nuovo percorso di sofferenza nelle periferie europee, nei campi del sud italia, nelle stazioni e sotto i portici di molte città. Ora sono a disposizione dello sfruttamento più brutale che non poteva sperare in niente di meglio che in nuova forza-lavoro, prostrata da anni di inedia, resa fortemente ricattabile e che non ha avuto il modo di costruirsi reti di solidarietà, apprendere la lingua e gli strumenti giuridici di autodifesa.
C’é però chi non si è fatto illudere dalle false promesse istituzionali e a pochi giorni dal limite ultimo del 28 febbraio ha deciso di non abbandonare i luoghi che ha iniziato a conoscere, in cui ha stretto un minimo di relazioni sociali e in cui ha trovato qualche compagno, che invece che speculare sulla sua condizione vi ha visto la propria, presente o futura.
Non possiamo accettare che nuove migliaia di lavoratori finiscano ad ingrossare le fila del lavoro nero, sottopagato, ipersfruttato e pericoloso, perché questo significa peggiorare le condizioni di tutti i lavoratori, disoccupati o futuri tali, esasperando la competizione al ribasso che è protagonista della guerra fra poveri a cui vogliono costringerci. Ai presenti e futuri lavoratori immigrati in Italia, sta arrivando una grande forza dalle lotte nel settore della logistica, che hanno dimostrato che è possibile conquistarsi salari più dignitosi e diritti fino a ieri negati, resistendo a colossi del calibro di IKEA, favorendo processi di autorganizzazione e protagonismo dei lavoratori che con lo sciopero della logistica del Marzo prossimo proveranno a mettere alle strette un settore dove lo sfruttamento è intensissimo, il potere padronale grande e i profitti anche.
Il 23 Marzo poi sarà il ricatto della legge Bossi-Fini ad essere messo al centro della grande manifestazione di migranti che ci sarà a Bologna, ma già da ora non possiamo permettere che siano (non)soluzioni individuali a precipitare migliaia di lavoratori nelle condizioni disastrose in cui li vogliono padroni e Governo. In caso contrario la forza del movimento dei lavoratori immigrati verrà indebolito e così minore sarà la forza di chi ogni giorno lotta sul posto di lavoro, nei territori, nella difesa dagli sfratti e dagli sloggi, dei disoccupati e degli studenti, forza lavoro in formazione.
Prima del 28 febbraio, manifestazioni e momenti rappresentativi dovranno cercare di conquistare una proroga dell’accoglienza, ma in situazioni abitative che consentano ai rifugiati di emanciparsi dalle condizioni di dipendenza in cui le strutture assistenzialistiche li hanno costretti in questi mesi, quindi non presso quelle strutture ferreamente gestite dalle cooperative speculatrici, ma in alloggi sotto il diretto controllo dei rifugiati. Queste proroghe dovranno servire per organizzare la mutua solidarietà, la costruzione di reti di supporto e l’elaborazione di strategie di riappropriazione di spazi abbandonati nei quali sopperire alla necessità di un luogo in cui dormire riparati e porre le basi per riconquistarsi un esistenza sociale e politica.
Chiediamo a tutte le compagne e tutti compagni, ai lavoratori tutti, ai collettivi, alle organizzazioni non assistenziali animate da una vera solidarietà di classe di partecipare alle mobilitazioni e sostenere la lotta dei richiedenti asilo.